Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata
grigia e dalla previsione d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino
di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «madeleine».
Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a
briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva
in me di straordinario.
Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato,
senza nozione della sua causa.
M'aveva reso indifferenti le vicissitudini della
vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce
l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in
me.
Era me stesso.
Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente,
mortale.
Donde m'era potuta venire quella gioia
violenta?
Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della
focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa
natura.
Donde veniva?
Che significava? Dove afferrarla?
Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di
più che nel primo, un terzo dal quale ricevo meno che dal secondo. E' tempo ch'io mi fermi, la virtù della bevanda
sembra diminuire.
E' chiaro che la verità che cerco non è in essa,
ma in me.
Essa l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non
può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza
che io sono incapace d'interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo
e ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per una spiegazione
decisiva.
Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca
a esso trovare la verità.
Ma come?
Grave incertezza, ogni qualvolta l'animo nostro
si sente sorpassato da sé medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo
stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio
non gli servirà a nulla.
Cercare? non soltanto: creare.
Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e
che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce.
E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere
quello stato sconosciuto, che non portava con sé alcuna prova logica, ma
l'evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra
svaniva.
Voglio provarvi a farlo riapparire.
Indietreggio col pensiero al momento in cui ho
bevuto il primo sorso di tè.
Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova
luce.
Chiedo al mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo
di ricondurmi di nuovo la sensazione che fugge.
E perché niente spezzi l'impeto con cui tenterà
di riafferrarla, allontano ogni ostacolo, ogni pensiero estraneo, mi difendo
l'udito e l'attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma, sentendo come l'animo mio si stanchi
senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo,
a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima d'un tentativo supremo.
Poi, una seconda volta, gli faccio intorno il
vuoto; di nuovo gli metto di fronte il sapore ancora recente di quel primo
sorso, e sento in me trasalire qualcosa che si sposta e che vorrebbe alzarsi,
qualcosa che si fosse come disancorata, a una grande profondità, non so che
sia, ma sale adagio adagio; sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze
traversate.
Certo, ciò che palpita così in fondo a me
dev'essere l'immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di
seguirlo fino a me. Ma si agita in modo
troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde
l'inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma, né
chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la testimonianza del
suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di
rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si
tratti.
Toccherà mai la superficie della mia piena
coscienza quel ricordo, l'attimo antico che l'attrazione d'un attimo identico è
venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo
di me stesso?
Non so.
Adesso non sento più nulla, s'è fermato, è
ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci
volte.
E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni
compito difficile, da ogni impresa importante, m'ha consigliato di lasciar
stare, di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai
miei desideri di domani, che si possono ripercorrere senza fatica.
E ad un tratto il ricordo m'è apparso.
Quel sapore era quello del pezzetto di
«madelaine» che la domenica mattina a Combray, quando andavo a salutarla nella
sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o
di tiglio.
La vista della focaccia, prima d'assaggiarla, non
m'aveva ricordato niente....
Ma, quando niente sussiste d'un passato antico,
dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più
vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore,
lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare,
sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi
impalpabile, senza vacillare, l'immenso edificio del Ricordo.
Alla Ricerca del Tempo perduto - M. Proust