In un tempo lontano lontano, perduto per sempre, i giorni sono di neve
bianca, e in lontananza i minuscoli granelli sono persone o cani oppure orsi.
Qui nulla fiorisce spontaneamente. I venti soffiano tanto forte che tutti devono
indossare giacche a vento, stivali e berretti. All’aperto, le parole si
congelano, e intere frasi devono essere rotte sulle labbra di chi parla e
disgelate accanto al fuoco, per vedere che cosa è stato detto.
Qui la gente vive nella bianca ed abbondante capigliatura della vecchia
Annaluk, la vecchia nonna, la vecchia maga che è la Terra stessa. E in questa
terra viveva un uomo, un uomo così solo che negli anni le lacrime avevano
scavato abissi sulle sue guance.
Cercava di sorridere e di stare
contento. Andava a caccia, dormiva bene, ma desiderava tanto una compagna.
Talvolta, quando si avvicinava al suo kajak una foca, rammentava le antiche
storie sulle foche ch’erano un tempo esseri umani, e a ricordare quel tempo
restavano gli occhi, capaci di sguardi saggi, e amorosi, e selvaggi… e talvolta,
sentiva così dolorosamente la sua solitudine che le lacrime scendevano lungo i
crepacci del volto.
Una volta, cacciò fino a notte fonda senza trovare nulla. Mentre la Luna si
levava alta nel cielo e il ghiaccio brillava, raggiunse un grande scoglio sul
mare, e su quell’antico scoglio apparve un movimento di grazia eccelsa. Remò
lentamente e silenziosamente per avvicinarsi, ed ecco che sullo scoglio
possente danzavano delle donne, nude come il giorno in cui le loro madri le
avevano partorite.
Rimase a guardare. Le donne parevano essere fatte di latte di Luna, con la
pelle punteggiata d’argento come i salmoni a primavera, e piedi e mani sottili
e leggiadri.
Tanto erano belle che l’uomo rimase
sbalordito, mentre le onde leggere lo trasportavano sempre più vicino allo
scoglio. Sentiva ora le magnifiche risa delle donne, quanto meno pareva
ridessero, o era forse l’acqua intorno allo scoglio che rideva?
L’uomo era confuso perché era abbagliato. La solitudine che gli era pesata sul
petto come una pelle intrisa d’acqua era in qualche modo svanita, e senza
riflettere, quasi così dovesse essere, saltò sullo scoglio e rubò una delle
pelli di foca che vi giacevano. Si nascose dietro uno spuntone e infilo una
pelle di foca nel suo qutmguk, la giacca di pelliccia. Ecco che subito una
donna chiama con la voce più bella che mai avesse udito… come quella delle
balene all’alba… o quella dei lupacchiotti che ruzzolano a primavera. Che cosa
andavano ora facendo le donne?
Infilavano la loro pelle di foca e una
dopo l’altra scivolavano nel mare, urlando e uggiolando felici. Una no. Cercava
dappertutto ma non riusciva a trovare la sua pelle. L’uomo prese coraggio e
neanche sapeva perché.
Le si mostrò: “Sii mia moglie, io sono un uomo così solo”.
“Oh io non posso esserti moglie, io
appartengo agli altri, quelli che vivono di sotto”
“Sii mia moglie” insistette
l’uomo “tra sette estati ti restituirò
la pelle di foca e potrai restare o andartene, come tu vorrai”.
La giovane donna-foca lo guardò a
lungo in volto con quegli occhi che parevano umani. Riluttante disse: “Verrò
con te, tra sette estati si deciderà”.
Ebbero un bambino e lo chiamarono
Ooruk. E il bambino era agile e grassoccio. In inverno la madre raccontò a
Ooruk le storie delle creature che vivono sotto al mare mentre il padre
tagliava a piccoli pezzi un orso con il suo lungo coltello affilato. Quando la
madre portava il piccolo Ooruk a letto, gli indicava attraverso l’apertura per
il fumo le nuvole e tutte le loro forme e raccontava storie di trichechi,
balene, foche e salmoni, perché erano quelle le creature che conosceva.
Ma col passare del tempo la sua carne prese a seccarsi. Prima si
sfaldò, poi si incrinò. Cominciò a cadere la pelle delle palpebre e caddero a
terra anche i capelli. Diventò del più pallido bianco. Cercò di nascondere la
sua debolezza. Ma i suoi occhi si offuscavano sempre di più e la vista le si
faceva sempre più debole.
E così andarono le cose finchè una
notte il piccolo Ooruk non fu svegliato da un urlo, e del tutto insonnolito si
levò a sedere sulle pelli del letto. Sentì come il ringhiare di un orso, che
era suo padre che picchiava sua madre. Udì un pianto come di argento
tintinnante sulla pietra, che era sua madre.
“Hai nascosto la mia pelle di foca
sette anni or sono, ora giunge l’ottavo inverno. Voglio che mi sia restituito
ciò di cui sono fatta” gemeva la donna foca “devo avere ciò a cui appartengo”.
“E tu mi lascerai senza moglie, e
lascerai il bambino senza madre. Sei cattiva”.
E il marito strappò la porta leggera e
sparì nella notte.
Il bambino amava molto sua madre.
Temeva di perderla e pianse fino a piombare nel sonno, per essere risvegliato
dal vento. Un vento strano, che pareva chiamarlo. Saltò fuori dal letto. Udendo
ripetere il suo nome si precipitò fuori nella notte stellata. Corse alla
scogliera e in lontananza, sul mare agitato dal vento, scorse una grande foca
argentea e irsuta dalla testa enorme, con le vibrisse che scendevano fino al
petto, gli occhi di un giallo scuro. “Ooooooruk”.
Il bambino a fatica discese giù lungo
la scogliera e in fondo incespicò su una pietra, no, un involto, rotolato giù
da una fenditura nella roccia. “Oooooruk”.
Il bambino aprì l’involto e lo scosse, era la pelle di foca di sua madre.
Sentiva tutto il suo odore. L’anima della madre lo attraversò come un
improvviso vento d’estate. Si portò la pelle al volto e l’anima di sua madre
attraversò di nuovo la sua.
E la vecchia foca argentea lentamente
si immerse nelle acque profonde.
Il bambino si inerpicò su per la
scogliera e corse con la pelle di foca che gli svolazzava dietro, e si
precipitò in casa. Sua madre lo accarezzò, e accarezzò la pelle, e socchiuse
gli occhi, grata perché entrambi erano salvi. Infilò la sua pelle di foca.
Sollevò il piccolo e se lo mise sotto il braccio e corse verso il mare
ruggente.
“Oh madre… non lasciarmi” implorò Ooruk.
Lei voleva restare con il suo bambino,
ma qualcosa la chiamava, qualcosa di più antico di lei, di più antico del
tempo. Si volse verso di lui con uno sguardo di terribile amore negli occhi.
Prese il viso del bambino tra le mani e soffiò il suo dolce respiro nei suoi
polmoni. Allora, tenendolo sotto il braccio come un involto prezioso, si tuffò
in mare, sempre più a fondo, e la donna-foca e il suo bambino respiravano
agevolmente nell’acqua. E scesero nuotando sempre più a fondo, fino a
raggiungere la grotta delle foche dove creature di ogni genere banchettavano e
cantavano, danzavano e parlavano, e la grande foca argentea che aveva chiamato
Ooruk nella notte abbracciò il bambino e lo chiamò nipote.
“Come sono andate le cose lassù,
figlia?” domandò la grande foca argentea.
La donna foca guardò in lontananza e
disse: “Ho ferito un essere umano… un uomo che ha dato tutto per avermi. Ma non
posso tornare da lui, perché se lo facessi resterei prigioniera.”
“E il bambino?” domandò la vecchi
foca. “Il mio nipotino?” Lo disse con tanto orgoglio che la voce gli tremò.
“Lui deve tornare. Non può fermarsi.
Non è ancora tempo che resti con noi”. E pianse. E insieme piansero.
Passarono alcuni giorni e alcune
notti, per l’esattezza sette, e in quel tempo gli occhi e i capelli della donna
ritrovarono l’antica lucentezza. Diventò di un bel colore bruno, ritrovò la
vista, il suo corpo ritrovò le sue rotondità, e potè nuotare a suo agio. E
venne il tempo di restituire il bambino alla terra.
Quella notte la vecchia foca e la bella madre del bambino nuotarono
tenendolo in mezzo a loro. Risalirono, risalirono dalle profondità verso il
mondo di sopra. Là, al chiarore della luna, delicatamente poggiarono Ooruk
sulla riva pietrosa.
La madre lo rassicurò: “Sarò sempre con te. Tocca quel che ho toccato, i
legnetti per accendere il fuoco, il mio coltello, le incisioni che ho fatto
sulla pietra di lontre e foche, e io soffierò nei tuoi polmoni un vento affinchè
tu possa cantare le tue canzoni.”
Più volte la vecchia foca argentea e
sua figlia baciarono il bambino. Infine si allontanarono al largo e con un
ultimo sguardo scomparvero tra le onde. E Ooruk, siccome il suo tempo non era
ancora venuto, rimase. Passò il tempo e diventò un grande suonatore di tamburo,
cantore e artefice di storie, e si disse che tutto ciò accadde perché il
bambino era sopravvissuto ed era stato riportato dalle profondità del mare
dagli spiriti delle foche.
Ora, nelle grigie brume del mattino,
talvolta lo si vede ancora, ripiegato in ginocchio su una certa roccia del
mare, mentre pare parlare con una certa foca che spesso si avvicina alla riva.
Molti hanno cercato di catturarla, ma nessuno ci è mai riuscito e’ nota come
Tanqigcaq, la brillante, la sacra, e si dice che sebbene sia una foca, i suoi
occhi sono capaci di sguardi umani, saggi, selvaggi e amorosi.
La foca è un simbolo dell'Anima Selvaggia. E' affettuosa e una sorta di purezza
emana da lei. Così è l'anima. Si libra nelle
vicinanze. Nutre lo spirito. Non fugge quando percepisce qualcosa di nuovo o
insolito o difficile.
L'anima delle donne giovani o inesperte non conosce le intenzioni altrui o il
potenziale pericolo. Avviene allora il furto della pelle di foca. Per lo più il
furto (della grande occasione della vita, dell'amore o del proprio spirito)
avviene approfittando del lato debole: per ingenuità, scarsa intuizione dei
moventi altrui, inesperienza nell'immaginare il futuro, mancanza di attenzione
per gli indizi presenti nell'ambiente intorno.
L'essere derubati si trasforma in un'occasione di iniziazione archetipa. Si
rinforza la decisione di lottare per una redenzione consapevole, si chiarisce
cosa è importante per noi, si sente la necessità di un progetto di
liberazione psichica, di mettere in atto la nuova saggezza.
La perdita della pelle: lo sviluppo della conoscenza deriva dall'iniziale
inconsapevolezza, seguita da un inganno e poi dalla scoperta del modo per
riconquistare il potere.
Ogni donna lontano dalla sua casa-anima alla fine si esaurisce. Allora si
rimette a cercare la sua pelle per resuscitare il suo senso dell'Io e
dell'anima. A mano a mano perdiamo la sensazione di essere completamente nella
nostra pelle.
La pelle-anima svanisce quando non prestiamo attenzione a ciò che
stiamo veramente facendo, e in particolare a quanto ci costa.
La perdiamo lasciandoci troppo coinvolgere dall'Io, diventando troppo esigenti,
facendoci martirizzare, lasciandoci trascinare da un'ambizione cieca,
abbandonandoci all'insoddisfazione, pretendendo di essere una fonte
inesauribile per gli altri, non facendo tutto il possibile per aiutarci.
Tutte le creature della terra tornano a casa. Ci sono donne che subiscono il
furto a causa di rapporti con persone che non sono nella loro pelle, e talune
relazioni diventano pericolose.
Ci vogliono forza e volontà per superare queste relazioni, ma lo si può fare se
si torna a casa, al nucleo di sé.
Se la pelle può andare perduta per un amore sbagliato o devastante, può andare
perduta anche in un amore bello e profondo. Il furto dipende infatti dal costo
che rappresenta per noi.
Quel che una relazione ci prende in tempo, energia, osservazione, attenzione,
cure, addestramento, presenza, insegnamento. Questi movimenti della psiche sono
come prelevamenti dai risparmi psichici. E' l'andare in rosso che provoca la
perdita della pelle e l'offuscamento dei nostri istinti più acuti.
Tutte noi saliamo sullo scoglio e danziamo,
senza prestare attenzione. E a un tratto non riusciamo più a trovare quel che
ci appartiene o ciò a cui apparteniamo. Vaghiamo un po' stupefatte. Non va bene
fare scelte in un momento così, ma noi le facciamo.
Perdere la pelle è perdere la protezione, il calore, il sistema di allarme, la
vita istintiva. Essere senza pelle induce a perseguire quel che si pensa di
dover fare e non quello che davvero si desidera. Si segue chiunque o qualsiasi
cosa impressioni con la sua forza, si diviene scherzose invece che incisive, si
butta sul ridere, ci si sbarazza delle cose. Ci si ritrae dal passo successivo, dalla discesa e da un soggiorno lungo
abbastanza perché qualcosa possa accadere.
L'uomo solitario: immaginiamo che l'uomo
che ruba la pelle di foca rappresenti l'Io della psiche femminile. All'inizio
l'Io, con i suoi appetiti, spesso prevale.
Ma a un certo punto, intorno ai trent'anni, o più spesso ai quaranta,
lasciamo che sia l'anima a prevalere. Fin dalla nascita c'è il bisogno che sia
l'anima a guidare la nostra vita, perché l'Io può comprendere un tanto, e nulla
più. Si spaùra, vuole fatti percettibili, è solo e limitato.
L'uomo solitario del racconto cerca di partecipare alla vita dell'anima. Ma
cerca di afferrarla, invece di instaurare un rapporto. L'Io ruba la pelle di
foca perché, solo e affamato, ama la luce. L'anima è costretta a una relazione
con l'Io. Questo crea un temporaneo arrangiamento che produrrà un piccolo
spirito capace di coabitare tra mondano e selvaggio.
Lo spirito bambino: l'unione tra Io e
anima produce lo spirito bambino. Questo piccolo spirito è capace di udire la voce lontana che dice: è tempo di tornare a sé.
E' il piccolo che riporta la pelle di foca alla madre e le consente di tornare
a casa. E' un potere spirituale che ci incita a continuare il nostro lavoro
importante, a cambiare la nostra vita, a migliorare la comunità, a dare una
mano per cambiare il mondo… tornando a casa.
Inaridimento e mutilazione: in genere depressioni, noia e confusioni
deliranti sono provocate da una vita dell'anima severamente ristretta.
Quando siamo ormai inaridite cerchiamo di camminare tutte bloccate, per far
vedere che ce la facciamo, che va tutto bene; ma la vita è umiliata, il costo
altissimo.
E' necessario un ritorno nella propria pelle, al proprio senso istintuale, a
casa. E' difficile riconoscere una condizione di inaridimento se non corriamo
un grosso pericolo.
Allora si sente il richiamo alla propria vera natura.
Ascoltare l'antico richiamo: la voce in
sogno è considerata un messaggio diretto dell'anima. Nella storia la vecchia
foca sale dal mare per lanciare il richiamo, finchè qualcosa in noi non
risponde.
Il segnale parte quando qualcosa comincia ad essere troppo. Di fronte al
troppo, a poco a poco ci inaridiamo, il cuore si stanca, le energie decrescono,
e il misterioso desiderio di qualcosa si leva sempre più in alto. Il richiamo
va seguito anche quando non abbiamo la minima idea di dove andare. Sappiamo
soltanto che dobbiamo alzarci e andare a vedere. Alla fine inciamperemo nella
pelle di foca.
Un soggiorno troppo protratto: la donna-foca si dissecca perché resta
troppo a lungo lontana da casa. Nel racconto diventa una versione anemica di
quello che fu. Non bisogna consumarsi la vita in un matrimonio, una fatica o
uno sforzo inutili o poco gratificanti. Se si resta lontane da casa troppo a
lungo si è meno capaci di avanzare nella vita.
Un ritorno a casa è molte cose diverse per
donne diverse; molti sono i modi per tornare a casa: alcuni profani, altri
divini. Rileggere passi di libri o poesie; passare qualche minuto in riva al
fiume; sedere sotto il portico a rammendare qualcosa; camminare senza meta;
salutare il sole che sorge; pregare; tenere in braccio un bambino piccolo;
aprire le mani sotto la pioggia; contemplare la bellezza, la grazia, la
commovente fragilità degli esseri umani.
Il continuo rimandare il ritorno può essere dovuto all'identificazione della
donna con l'archetipo della guaritrice. Questo archetipo porta saggezza, bontà,
sapienza, ma solo fino a un certo punto, oltre è d'impedimento alla nostra
vita.
Per evitare la trappola bisogna imparare a dire : "Alt" e "Basta
con la musica". Il fondamentale istinto selvaggio che decide "solo
fin qui e non oltre, solo questo e niente più" deve essere recuperato e
sviluppato.
Meglio tornare a casa per un po', anche se gli altri si irritano, che restare e
peggiorare, fino a cadere a pezzi. Se non andiamo a casa quando è tempo di
andare perdiamo la concentrazione.
Lo scioglimento, il tuffo: la casa è là
dove un pensiero o una sensazione possono svilupparsi invece di essere
interrotti o di esserci strappati perché altro richiede la nostra attenzione o
il nostro tempo. Quando è tempo è tempo, anche se non siete pronte, anche se
tante cose restano da fare.
Per alcune, “casa” è la ripresa di qualche impresa abbandonata. Per altre, “casa”
è un bosco, un deserto, un mare; ogni donna sa in cuor suo quanto a lungo e con
quale frequenza deve tornare a casa.
Respirare sott'acqua: la donna foca porta il bambino a trovare quelli che
vivono sotto. Il bambino rappresenta un nuovo ordine della psiche, è un essere
mediale, capace di attraversare entrambi i mondi, non è completamente Io né
completamente anima, è una cosa di mezzo.
La donna foca del racconto è un'emanazione dell'anima. E' in grado di vivere in
tutti i mondi, ma non può restare troppo a lungo sulla terra. Lei e il
pescatore (l'Io psiche) creano un bambino che può vivere anch'esso nei due
mondi, ma non può restare troppo a lungo nella casa-anima.
La donna foca, l'Io-anima, passa idee, sentimenti, pensieri e impulsi
dall'acqua all'Io mediale, che a sua volta li porta a terra e alla
consapevolezza del mondo esterno.
C'è anche il percorso inverso: gli eventi della vita quotidiana, i traumi e le
gioie, i timori e le speranze, vengono passati all'anima, che li commenta nei
sogni notturni e manda le sue sensazioni verso l'alto, attraverso il corpo.
La donna selvaggia è una combinazione di buon senso comune e di senso
dell'anima. La donna mediale è il suo doppio, è di questo mondo ma può
raggiungere gli angoli più riposti della psiche.
L'emersione: ma non possiamo restare
sott'acqua per sempre, dobbiamo risalire in superficie. Il rimedio a questo
lutto è dato dalla donna foca al suo bambino: "sarò sempre con te".
Come il bambino della donna foca, impariamo che avvicinarci alla creazione
della madre anima è esserne ricolmate. Anche se si torna tra la gente, tutta la
sua forza si sente nei poteri femminili di introspezione, passione e
connessione alla natura selvaggia. Se manterremo i contatti con gli strumenti
della forza psichica, sentiremo il suo respiro.
Ooruk resta a terra, ha la promessa. Non appena torniamo al mondo rumoroso
tutto ha un aspetto leggermente estraneo. La sensazione di venire da un mondo
estraneo svanisce dopo poche ore o pochi giorni. Allora passeremo il tempo
nella nostra vita mondana, alimentate dall'energia raccolta durante il viaggio
a casa.
Nel racconto il bambino mette in pratica la natura mediale. Suona il tamburo,
canta, diventa cantastorie. Così il bambino vive quanto la donna foca ha soffiato su di lui. Allora, invece
di cercare di "far durare la magia", viviamo.
L'esercizio della solitudine
intenzionale: il bambino ormai grande s'inginocchia su uno scoglio e
conversa con la donna foca. Questo esercizio quotidiano e intenzionale della
solitudine gli consente di stare vicino a casa in modo critico, riuscendo a
richiamare l'anima nel mondo di sopra per brevissimi periodi. Solitudine non è
assenza di energia o di azione, ma un dono di provviste selvagge.
Come si fa a richiamare l'anima? In molti modi: con la meditazione, o nei ritmi
della corsa, del canto, della scrittura, della pittura, con i riti e i rituali,
con l'immobilità, la quiete.
Tutte abbiamo uno stato mentale familiare in cui
realizzare questo genere di solitudine. Bisogna spegnere tutte le distrazioni. La solitudine vive di poco: costa
soltanto qualcosa in intenzione e perseveranza, ma qualsiasi tempo e qualsiasi
luogo vanno bene.
Possiamo vivere sulla terra, ma non per sempre, non senza viaggi nell'acqua e a
casa. Le culture esageratamente civilizzate e oppressive cercano di trattenere la
donna dal ritorno a casa, troppo spesso le si intima di star lontano
dall'acqua, finchè smagrisce e si indebolisce.
Ma quando arriva il richiamo, una parte di lei lo ode sempre e va, perché si è
preparata a seguirlo. Il ritorno a casa e la conversazione con la foca sono i
nostri atti di innata e integrale ecologia, perché sono un incontro con l'anima
selvaggia.
Donne che corrono con i Lupi- C. P. Estes